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martedì 15 maggio 2018

 
  
Pretesti della memoria
per Armando Petrucci
  
 
di
Antonio Maria Adorisio
  
 
Armando Petrucci è morto a Pisa il 23 Aprile 2018. La notizia comparsa sui giornali ha provocato in me un effetto di “macchina del tempo”. D’un balzo ha colmato una distanza di decenni. Avevo conversato con lui telefonicamente (e fu l’ultima volta) nel 1994, in quei giorni d’euforia generata dal recupero delle Tusculanae disputationes con le postille autografe di Francesco Petrarca, prima Guarnieri, poi Baldeschi Balleani. Aveva accolto la notizia che gli comunicavo con una sincera allegrezza. E come non poteva essere così per lui che della scrittura di Petrarca è stato il massimo esploratore?
Non ricordo quello che allora dicemmo, ma ripensando a quel contatto, la mia memoria come un cerchio si chiude sul primo incontro con lui, segnato proprio dalla scrittura del Petrarca. Neo-laureato in Storia dell’arte, approdo alla Scuola speciale per archivisti e bibliotecari. L’anno accademico è quello del 1965-1966, il corso di lezioni che Petrucci svolge sub umbra del sommo Giorgio Cencetti s’intitola: Origini e sviluppo della minuscola umanistica in Italia. Le lezioni sulla scrittura di Francesco Petrarca sono il cuore del corso e l’anteprima del suo conosciutissimo libro: La scrittura di Francesco Petrarca, pubblicato nel 1967 nella collana “Studi e Testi” della Biblioteca Apostolica Vaticana.
Alcune lezioni si svolsero nella Biblioteca Corsiniana, dove lui rivestiva l’incarico di Vicedirettore. Una piccola foto conserva la memoria visiva di una lezione sul terrazzo della Biblioteca prospiciente l’Orto botanico e il Colle Gianicolo, da cui alle ore 12 in punto esplodeva la tradizionale cannonata a salve. Attorno a lui, oltre chi scrive, i volti di aspiranti paleografi e bibliotecari.
 
 
 
 
 
 

 
 
Quel corso universitario è particolarmente importante per più d’un motivo. In quelle lezioni Armando Petrucci formula lucidamente quella ideologia della sua ricerca a cui egli rimarrà fedele lungo tutto il percorso di studioso, volta (parole sue): «alla dimostrazione della stretta connessione esistente fra paleografia, storia della cultura e storia sociale» (cfr. Dispense dattiloscritte).
Lo sforzo di superare i tecnicismi delle diverse scritture spingendole a significare manifestazioni eloquenti della storia della cultura continuò nel successivo anno accademico 1966-1967 con il corso dal titolo: I codici e le stampe volgari del Quattrocento. Consapevole d’infrangere ormai il confine tradizionale della paleografia, egli dichiara sin dall’inizio che la materia del corso può definirsi di bibliologia. Nel Quattrocento si manifesta una netta frattura tra cultura umanistica e cultura del volgare determinando una differenziazione degli strumenti e dei prodotti scrittori, nonchè delle forme e delle prassi culturali. Lo sviluppo delle scritture individuali, l’avvento della tecnica della stampa, la storia della formazione e del vario sviluppo delle raccolte librarie costituirono alcune delle trame volte a tessere la storia culturale del volgare.
Si ravvisa nel corso un embrione del saggio pubblicato nella Storia della letteratura italiana della Einaudi a cura del suo amico Alberto Asor Rosa (che Petrucci chiamava affettuosamente Albertino) e, più recentemente, riedito con il titolo: Storia e geografia delle culture scritte (dal secolo XI al secolo XVIII), in: Letteratura italiana: una storia attraverso la scrittura (Roma, Carocci, 2017).
In questa prospettiva di storia sociale della cultura scritta trovano la loro collocazione le biblioteche, private e pubbliche, religiose e laiche. Perciò il corso dell’anno accademico successivo, il 1967-1968, ebbe per tema la storia delle biblioteche. Nella prima parte si studiarono: Le biblioteche altomedievali italiane (secc.VI-XII), a cominciare dalle antiche biblioteche papali a quelle del Vivarium di Cassiodoro e del monastero di San Colombano di Bobbio. Nella seconda parte fu considerata La biblioteca di Angelo Poliziano, alla cui conoscenza aveva dato un fondamentale contributo il notissimo saggio di Ida Maīer, Les manuscrits d’Ange Politien (Genève, 1965). La biblioteca dell’Ambrogini, con manoscritti e incunaboli soggetti a continui interventi interpetrativi autografi, manifestava una sensibilità critica del leggere e dello scrivere nuova e modernissima. Non fu perciò solo casualità se, pochi anni  dopo, il nuovo bibliotecario della Casanatense potè riconoscere un incunabolo dell’Anthologia Graeca con interventi autografi del Poliziano (cfr. Italia Medioevale e Umanistica, 1973).
Tra il 1965 e il 1968 le lezioni di Armando Petrucci rappresentarono un vivace focus di riferimento per molti di noi che, intanto, si apprestavano a partecipare al concorso per bibliotecari, svoltosi tra il 1967 e il 1968. Tuttavia non si deve dimenticare che in quegli anni il frequentatore dell’Istituto di Paleografia latina poteva seguire e ascoltare corsi e lezioni di paleografi quali Giorgio Cencetti, Giulio Battelli, Paola Supino, di diplomatisti come Alessandro Pratesi, di storici dell’arte quale Sergio Samek Ludovici, fine conoscitore di grafica e storico dell’illustrazione del libro a stampa, e ancora il grande Luigi Magnani, musicologo e facoltoso collezionista di pittura antica, di cui restano indimenticabili lezioni sui codici miniati tardo-antichi e altomedioevali.
Un ambiente culturale ricco come pochi, in cui si operava un’intensa osmosi di conoscenze e nascevano idee e progetti.
Il 1968 costituì un anno cruciale. Coloro che avevano partecipato e vinto il concorso raggiunsero le biblioteche loro assegnate. I legami con l‘università si sciolsero. Armando Petrucci, poi, passò dapprima all’università di Salerno, poi ancora a Roma, e definitivamente a Pisa.
 
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