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lunedì 26 luglio 2010

S. NICOLA, VESCOVO DI MIRA


Frammenti di una versificazione agiografica.


   Nel post dello scorso dicembre 2009, dal titolo Frammenti di vite eroiche, ho accennato a un lacerto di 'Passionario' medioevale con l'incipit della vita latina di San Nicola, vescovo di Mira. Ora un caso fortuito, come accade nella realtà di chi pratica la ricerca e la lettura, mi ha fatto ritrovare due strofe manoscritte ispirate a un episodio di quella vita.
   Si tratta di due sestine in lingua italiana, scritte da mano dei secoli XVII o XVIII su carte d'archivio. La loro lettura non presenta difficoltà e qui le trascrivo, aggiungendo solo qualche spiegazione mirante a una migliore comprensione:


E la Calunnia stessa
Al fato di quei prodi
Confederata in su le Frige arene
A Bisanzio s'appressa
E fa con mille frodi
Di premij in vece apparecchiar catene.



Ah che indarno c'affanna
L'altrui divieto ingiusto
Se Ablavio ci condanna
Se ci vuol morti Augusto
Dimmi al povero cuore
Come schermo può far fede o valore.



     Il poeta s'ispira all'episodio iniziale della vita latina del Vescovo di Mira, nota con il titolo Praxis de stratelatis. Regnando Costantino Augusto scoppia una ribellione in una provincia dell'Impero e per sedarla l'Imperatore invia un corpo d'armata sotto il comando di tre ufficiali: Nepoziano, Orso, Eupoleone o Erpilio. Nel corso della spedizione i tre approdano presso Mira e hanno modo di conoscere il potere carismatico del vescovo Nicola, che salva e libera tre prigionieri destinati alla decapitazione.
   I tre ufficiali adempiono onorevolmente il loro compito e riportano l'ordine e la pace nella provincia ribelle. Al loro ritorno il successo riportato scatena l'invidia di Ablavio, consigliere dell'Imperatore, che lo convince a credere che i tre ufficiali vittoriosi tramino una congiura contro di lui. L'Imperatore allora li fa prendere prigionieri e li condanna a morte. I tre malcapitati si vedono perduti e, ricordando la liberazione dei tre condannati, invocano il Vescovo di Mira. Il Santo compare in sogno a Costantino Augusto e gli rivela l'innocenza dei tre, che a questo punto vengono liberati.
    Le due sestine recuperate alludono all'invidia che trama contro di loro mentre ritornano e la loro disperazione quando, pur vittoriosi e innocenti, si vedono condannati.
    I versi non sono eccezionali, ma neppure spregevoli. L'Autore è sicuramente un italiano dell'età moderna e non lascia il suo nome. Una traccia per identificarlo è costituita dal fatto che le carte su cui le sestine sono vergate provengono dall'archivio personale di Giuseppe Alferi Ossorio, nobile aquilano, di cui nel fascicolo è conservata una lettera datata nel 1624.
    (continua)