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venerdì 24 dicembre 2010

UN FOGLIO DI BIBBIA ATLANTICA


Quarta aggiunta

Al recto e al verso del foglio si leggono queste annotazioni scritte da un’unica mano in un corsivo individuale del sec.XVII.

Ut hec et alia patent in dicto libro, penes me etc. cui etc. ac in fidem mea manu scripsi et subscripsi et meum proprium sygillum apposui etc.

Adì 19 de Aprile 1661 [?] fece la crisima Monsignor Illustrissimo etc.

Ut haec et alia patent in dicto libro, cui etc. est penes me etc. cui etc. ed [così] in fidem hanc mea manu scripsi et subscripsi et meum proprium sygillum apposui.

Nella seconda troviamo un preciso riferimento cronologico e storico: la venuta a Longobucco di un Arcivescovo per conferire il sacramento cristiano della Confermazione (Cresima). Ricordando che la prima destinazione del foglio è stata quella di coprire un Liber Confirmatorum, prima di essere reimpiegato come coperta di un Liber Matrimoniorum e di nuovo di un Liber Mortuorum, possiamo credere che la necessità di rilegare degnamente il registro dei nuovi cresimati abbia spinto il parroco ad utilizzare la pagina biblica.
Nelle due altre annotazioni simili, che il parroco trae dal formulario notarile, egli vuole corroborare e legalizzare formalmente le registrazioni dei cresimati annotate nel libro.
Si rivela quindi l’intenzione di conferire al registro un valore simbolico e ufficiale che spiega l’uso di un foglio del prezioso codice, presente nel corredo della chiesa. E’ noto che l’Universitas civium di Longobucco per le decisioni collettive usava riunirsi nella chiesa e giurare su un codice della Sacra Scrittura.
L’uso di un foglio di quel sacro codice conferiva al Liber Confirmatorum, che ne era ricoperto, un valore aggiunto simbolico e probatorio, corroborando la veridicità di quel che vi era scritto.
Oggi l’unico Liber Confirmatorum conservato nell’Archivio parrocchiale è un lacerto di poche pagine riferentesi a cresime del 1676.
               (Continua)

domenica 17 ottobre 2010

UN FOGLIO DI BIBBIA ATLANTICA

Terza aggiunta.
         La solennità caratterizza i codici atlantici e suggerisce la sacralità. Il testo della Bibbia è costituito da libri sacri che manifestano il Verbo, la parola di Dio, riferimento imprescindibile di ogni altra parola. Su tale convinzione dovette nascere anche l’uso di stabilire patti e prestare giuramento sui codici della Bibbia e dei Vangeli. Toccando materialmente questi codici, poggiandovi solennamente sopra la mano, i contraenti giuravano promettendosi a vicenda che la loro parola sarebbe stata ferma, sicura e immutabile come quella contenuta nel sacro volume.
         Si conoscono almeno due grandi Bibbie che furono impiegate in solenni occasioni di giuramento.
La Bibbia carolingia dell’Abbazia di San Paolo fuori le Mura, archetipo delle Bibbie atlantiche, conserva, vergata su una delle carte iniziali, la formula di giuramento prestata dal normanno Roberto il Guiscardo a papa Gregorio VII. Alcuni pensano che Roberto il Guiscardo a Melfi, nel 1059, abbia giurato fedeltà al Papato proprio su questa Bibbia.
Analogamente la Bibbia atlantica, oggi conservata nella Biblioteca Civica Berio di Genova, appartenne alla Universitas della Repubblica di Genova, che su di essa usava prestare i suoi giuramenti solenni:
                                 « Ista Biblia est communis Ianue et sic visum est constare in inventario bibliotece communis Ianue. Secondo la tradizione, essa veniva utilizzata per i giuramenti pronunciati dai magistrati del Comune, al momento di assumere la carica » [http://www.comune.genova.it/portal/page/categoryItem?contentId=498338]
         Alcune caratteristiche del frammento calabrese consentono di ipotizzare un uso analogo.
(Continua)

giovedì 26 agosto 2010

FRAMMENTI DI … DEVOZIONE. 2


    


Secondo frammento.


   Il secondo frammento di questo raro foglio volante contiene due elementi complementari al primo: la parte finale del testo e la sottoscrizione dei tipografi.


   La seconda parte del testo potrebbe avere come titolo: il prodigio della testa mozzata.


   Per dimostrare l'efficacia della preghiera, se portata sempre indosso, viene inserito nel testo l'aneddoto di una testa mozzata, che malgrado tale, aveva pur conservato in sé la vita e la parola. A motivo della preghiera che ricordava la passione di Gesù portata indosso e malgrado vittima d'assassinio, essa non poteva morire se prima non avesse ottenuto il perdono e la riconciliazione con Dio mediante la confessione. La testa prega perciò un Capitano di passaggio e diretto a Barcellona affinché le conduca un confessore. Dopo aver ottenuto ciò ed essersi confessata, finalmente poté spirare, questa volta in grazia di Dio.


   La fantastica storia, che ci ripromettiamo di approfondire, ha il pregio di fornire una precisa indicazione di luogo. Ci troviamo nei pressi di Barcellona e quindi nel Regno di Spagna, cui dal 1504 era aggregato il 'Viceregno' di Napoli. In quest'ambito territoriale viene narrato l'episodio, in questo stesso ambito, con buona probabilità, viene confezionata la preghiera stessa e trova esito editoriale.


   L'anno esatto di stampa non è indicato e inutilmente (almeno sino ad oggi) ne ho cercato traccia nelle bibliografie e nei cataloghi delle biblioteche. Come ho già ricordato il foglio risulta stampato in Napoli e Macerata dai tipografi Luigi Chiappini e Antonio Cortesi. L'attività dei due tipografi si può collocare tra il 1724 e il 1784.

   (continua)

lunedì 26 luglio 2010

S. NICOLA, VESCOVO DI MIRA


Frammenti di una versificazione agiografica.


   Nel post dello scorso dicembre 2009, dal titolo Frammenti di vite eroiche, ho accennato a un lacerto di 'Passionario' medioevale con l'incipit della vita latina di San Nicola, vescovo di Mira. Ora un caso fortuito, come accade nella realtà di chi pratica la ricerca e la lettura, mi ha fatto ritrovare due strofe manoscritte ispirate a un episodio di quella vita.
   Si tratta di due sestine in lingua italiana, scritte da mano dei secoli XVII o XVIII su carte d'archivio. La loro lettura non presenta difficoltà e qui le trascrivo, aggiungendo solo qualche spiegazione mirante a una migliore comprensione:


E la Calunnia stessa
Al fato di quei prodi
Confederata in su le Frige arene
A Bisanzio s'appressa
E fa con mille frodi
Di premij in vece apparecchiar catene.



Ah che indarno c'affanna
L'altrui divieto ingiusto
Se Ablavio ci condanna
Se ci vuol morti Augusto
Dimmi al povero cuore
Come schermo può far fede o valore.



     Il poeta s'ispira all'episodio iniziale della vita latina del Vescovo di Mira, nota con il titolo Praxis de stratelatis. Regnando Costantino Augusto scoppia una ribellione in una provincia dell'Impero e per sedarla l'Imperatore invia un corpo d'armata sotto il comando di tre ufficiali: Nepoziano, Orso, Eupoleone o Erpilio. Nel corso della spedizione i tre approdano presso Mira e hanno modo di conoscere il potere carismatico del vescovo Nicola, che salva e libera tre prigionieri destinati alla decapitazione.
   I tre ufficiali adempiono onorevolmente il loro compito e riportano l'ordine e la pace nella provincia ribelle. Al loro ritorno il successo riportato scatena l'invidia di Ablavio, consigliere dell'Imperatore, che lo convince a credere che i tre ufficiali vittoriosi tramino una congiura contro di lui. L'Imperatore allora li fa prendere prigionieri e li condanna a morte. I tre malcapitati si vedono perduti e, ricordando la liberazione dei tre condannati, invocano il Vescovo di Mira. Il Santo compare in sogno a Costantino Augusto e gli rivela l'innocenza dei tre, che a questo punto vengono liberati.
    Le due sestine recuperate alludono all'invidia che trama contro di loro mentre ritornano e la loro disperazione quando, pur vittoriosi e innocenti, si vedono condannati.
    I versi non sono eccezionali, ma neppure spregevoli. L'Autore è sicuramente un italiano dell'età moderna e non lascia il suo nome. Una traccia per identificarlo è costituita dal fatto che le carte su cui le sestine sono vergate provengono dall'archivio personale di Giuseppe Alferi Ossorio, nobile aquilano, di cui nel fascicolo è conservata una lettera datata nel 1624.
    (continua)

martedì 27 aprile 2010

IL GRIFO E L’ANCORA


Seconda aggiunta.

    Il lettore cinquecentesco di Angelo Poliziano ne condivideva probabilmente alcuni interessi. In primo luogo proprio quello verso gli storici e la storia. Egli, oltre al ricordato frammento di discorso storico, ha lasciato nel libro alcune note di lettura che riguardano solamente le pagine in cui è stampata la Praefatio in Suetonij expositionem (pp.117-134). Questa prolusione il Poliziano la scrisse in occasione di un corso su Svetonio tenuto nel 1490-1491 ed è stata edita la prima volta da Aldo Manuzio nel 1498.
    Poliziano tesse le lodi della storia, accogliendo una definizione di Cicerone che la chiama "testimone dei tempi, faro della verità, vita della memoria, disvelazione dell'antichità" (temporum testem, lucem veritatis, vitam memoriae, nunciam vetustatis). Non piccolo merito della storia è, poi, quello di conferire gloria agli uomini che la meritano (boni vires) e additare al disprezzo coloro che demeritano (improbi). Ma alcuni ritengono che l'uomo virtuoso non debba desiderare la gloria, perché l'esercizio della virtù è esso stesso premio a chi lo pratica. Costoro, mentre intimoriscono gli altri, non tralasciano di mettere il loro nome su quello che scrivono. Non c'è alcuno, osserva Poliziano citando Persio, che non si lasci solleticare dalla lode o non tema di esporsi all'infamia.
   Il lettore umanista sottolinea quest'ultimo concetto e chiosa in margine: «de gloria loquitur». L'etica civile dell'Umanesimo è per lui ancora vigente ed è da rimarcare. Quando poi, più avanti, Poliziano enumera gli accorgimenti necessari per scrivere una buona storia, il lettore cinquecentesco segnala le righe con un tratto di penna e scrive: «que observanda in hysto(ria)». Ancora più avanti Poliziano asserisce che la storia giova agli uomini e di nuovo il lettore rimarca in margine: «laus hystorie».
   Del Poliziano il nostro lettore condivide anche l'interesse lessicale. Egli in varie pagine annota alcuni termini che lo colpiscono: inprese(n)tiarum (p.122), κίταν grece pica latine (p.124), infantissimus (p.125), aloes (p.126), collineo (p.127), mercedula (p.129), rumusculus (p.129), sternax equus (p.131).
   Il lettore è attratto anche da alcuni riferimenti di natura storico-artistica. Il Poliziano nomina i grandi scultori dell'antichità, Fidia, Prassitele e Alcamene, discepolo di Fidia, ed egli sottolinea in margine: «no(m)i(n)a insigniu(m) statuariorum» (p.129). Alla pagina successiva Poliziano ha modo di ricordare l'accorgimento dell'architetto del Faro di Alessandria d'Egitto, Sostratos di Cnido, che aveva iscritto il suo nome sulla torre coprendolo con un intonaco su cui aveva apposto il nome del re Tolomeo, calcolando, come poi accadde, che quando quel rivestimento fosse andato distrutto, i posteri avrebbero letto il suo nome saldamente inciso nella pietra. L'episodio, forse ignoto al nostro lettore, attira questo commento: «Atte(n)de Gnidij architecti vastame(n)tu(m)» (p.130).
   Da notare, infine, il suo apprezzamento della poesia. Non gli sfugge, infatti, la traduzione del Poliziano di un distico del greco Esiodo sulle Muse e annota in margine: «de musis distichon».
   I versi che lo colpiscono (p.123) dicono:
Scimus falsa quidem narrare simillima veris,
         scimus item quoties libitum est, et vera profari.
Noi Muse possiamo raccontare le favole come fossero vere,
ma quando ci piace, sappiamo anche narrare le cose vere.
(Continua)

martedì 20 aprile 2010

FRAMMENTI DI… DEVOZIONE.



Primo frammento.
   La Copia di una orazione non ha autore (o, forse, ne ha tanti) ed è composta non si sa in quale secolo. Contiene riferimenti storici a Carlo V e a Barcellona, e perciò rinvia alla grande Spagna del sec.XVI. Ma la copia Ritrovata nel S. Sepolcro di N. S. Gesù Cristo in Gerusalemme fa riferimento anche a rivelazioni avute da S.Elisabetta Regina d'Ungheria, S.Metilde di Germania, S.Brigida di Svezia, tutte mistiche medioevali. Forse se ne potrebbe dedurre che questo testo è nato cronologicamente nel sec.XVI elaborando materiali di epoche precedenti.
   Certo è che questa curiosa orazione appare piena d'incongruenze e anacronismi, spiegabili solo se si pensa a una sua composizione ad opera di persone diverse e, forse, in tempi diversi. Da un'edizione all'altra questi testi devozionali subiscono, poi, adattamenti e variazioni arbitrarie.
   Come questa orazione, che riferisce le rivelazioni di Gesù alle tre sante [le tre mistiche hanno ricevuto Revelationes], sia potuta giungere nel Santo Sepolcro di Gerusalemme, è un vero mistero. Chissà che qualche scrittore di misteri, secondo la moda letteraria dei nostri tempi, non vi trovi uno spunto sufficiente per un best seller! E' già capitato che un romanzo ben confezionato possa vendere a livello 'culto' sedimenti stratificati nei diverticoli dell'ignoranza e della superstizione.
   Le tre Sante, recita il testo, chiesero a Gesù nelle loro preghiere di sapere "alcune cose" della sua Passione. Gesù apparve loro "favellando con esse così". E qui comincia uno straordinario inventario che, come ho già accennato, gareggia con la Sindone nel testimoniare i segni e le ferite della passione. Ecco cosa Gesù rivelò:
«Serve mie dilette sappiate, che li soldati armati furono 105.
Quelli mi condussero legato furono 23.
Gli esecutori di giustizia furono 33.
I pugni mi diedero nella testa 30.
Preso nell'orto per levarmi da terra mi diedero calci 105.
Colpi di mano nella testa, e nel petto furono 108.
Colpi nelle spalle 80.
Fui strascinato con corda, e per i capelli 23 volte.
Sputi nella faccia 50.
Battiture 6666.
Nel corpo 100 piaghe.
Nella testa buchi 110.
Mi diedero un urtone mortale nella Croce.
Stetti in alto per i capelli due ore, nel qual tempo mandai 129 sospiri.
Fui strascinato, e tirato per la barba 23 volte.
Punture di spine nella testa 100.
Spine mortali nella fronte 3.
Sputi nella faccia 150.
Piaghe, che mi furono fatte, e lividure 1000.
I Soldati che mi condussero furono 508.
Quelli che m'inchiodarono furono 3.
Sparsi tutto il mio Sangue fino all'ultima goccia per la salute del genere umano».

   I numeri elencati in questa edizione variano nelle successive, com'è tipico in questi testi molto interpolati. Certamente però il significato di questa minuta elencazione non è da ricercare nello stile inventariale, ma nel bisogno di dare e ricevere compassione, nella grande tenerezza del cuore femminile particolarmente propenso a comprendere i patimenti di un innocente. Così è pure nello scambio dei gesti d'amore, dove lo struggimento e la passione a volte si esprimono, ma non consistono, nel numero dei baci donati e ricevuti.
   E ciò sapevano bene tre donne appassionate: Elisabetta, Metilde, Brigida, che non avevano fatto studi sulla Sindone, ma che avevano certamente meditato e compatito quel supplizio inflitto impietosamente a Gesù.
(continua)


sabato 10 aprile 2010

FRAMMENTI DI… DEVOZIONE





    La Sindone di Torino è certamente un oggetto eccezionale. Anche a non volerlo considerare una testimonianza religiosa, merita ogni considerazione e attenzione almeno in quanto reperto archeologico. Non è, forse, di grande interesse conoscitivo e scientifico avere a dispozione e studiare un lenzuolo tessuto duemila anni or sono?  Già solo per questo motivo, credo, bisognerebbe osservarlo, venerarlo, studiarlo e trattarlo con il massimo rispetto, indirizzando tutti gli sforzi delle nostre conoscenze e delle nostre capacità tecniche per mostrarne l'autenticità e l'antichità. Pregiudizi, ideologie e speculazioni, invece, concepiscono e partoriscono ipotesi abnormi e ridicole, non ultima l'americanata della pittura dovuta a Leonardo da Vinci. E perché non attribuirla a Toro Seduto? Povero Leonardo, trasformato in falsario e ridotto a impiegare il suo eccezionale genio creativo per imbrogliare quei creduloni di cristiani!
    Ma quale bisogno lui e i cristiani ne avevano? A descrivere nei minimi particolari la passione di Gesù, suppliziato dai suoi contemporanei sulla croce, non c'è soltanto la Sindone. Le Sante visionarie del medioevo conoscevano tutti i più minuti particolari di quel supplizio. Si tramanda tra il popolo dei cristiani, non quello dotto dei teologi e degli ecclesiastici in carriera, ma quello autentico della gente semplice, che alcune sante donne, Santa Elisabetta d'Ungheria, Santa Metilde e Santa Brigida, avessero interrogato nelle loro mistiche riflessioni direttamente Gesù.
    E l'interrogato rispose.
    La risposta di Gesù fu stampata più volte su fogli volanti di carta, che i venditori di santini e oggetti devozionali portavano in giro nelle fiere e nelle feste religiose dei paesi. A comprarli erano principalmente le donne devote e pie, che si commuovevano nel leggere la precisa e realistica descrizione delle sofferenze fisiche e delle umiliazioni di Gesù, così simile nella sofferenza a loro stesse e ai loro figli e mariti, soggetti alla durezza del lavoro, alle vessazioni del potere, alle malattie e alla morte.
    Di questi fogli volanti non è facile trovarne nelle biblioteche. La stessa Biblioteca Apostolica Vaticana non ne descrive nei suoi cataloghi ufficiali. Con più fortuna si potrebbe, solo per caso, ritrovarne qualcuno per caso tra collezioni di santini e images pieuses. Fra queste, infatti, ho potuto recuperarne due frammenti, ognuno di una copia diversa, ma fortunatamente complementari, che ne consentono la ricostruzione completa.
    Per non farti stare, o mio unico lettore, sulle spine, ne trascrivo per ora il titolo e le note tipografiche:

  • COPIA DI UNA ORAZIONE // Ritrovata nel S. Sepolcro di N. S. Gesù Cristo in Gerusalemme, la quale si conservò // da sua Santità, e da Carlo V ne' loro Oratorj in Cassa d'Argento.

  • NAPOLI, ed in MACERATA dalle Stampe di Luigi Chiappini, ed Antonio Cortesi. // Con Licenza de' Superiori.
(Continua)

giovedì 25 febbraio 2010

UN FOGLIO DI BIBBIA ATLANTICA



Seconda aggiunta


   In questo particolare della pagina si ripete lo schema compositivo già evidenziato nella precedente riproduzione. L'iniziale di colore, Miserationem (Is. 63 7), in rosso carminio, segna l'inizio di un capitolo del testo ed è perfettamente allineata alle iniziali dei capoversi che la precedono. La tipologia della lettera interpreta le forme classiche delle lettere maiuscole adoperate nelle scritture monumentali romane, sottolineando la solennità e la sacralità del testo. A questa finalità concorre anche il colore carminio. Questo colore, se pure usato largamente in età antica e medioevale, assume nel contesto biblico una sfumatura simbolica, alludendo alla porpora quale attributo della regalità che è propria della parola di Dio. La lettura in chiave simbolica di questi particolari non è inutile perché avvia ad una comprensione del ruolo e della funzione dell'intero codice.

sabato 13 febbraio 2010

LES MILLE ET UNE NUITS



La FALENA.
   Un frammento, una farfalla schiacciata tra due pagine d'un libro di favole. Una realtà minima legata alla favola, da spiegarsi solo con un'altra favola.
  Raccontar favole talvolta giova, perché anche le favole, se appropriate, sono strumento di conoscenza. Così argomentava Angelo Poliziano nell'introduzione allo studio degli ardui testi d'Aristotele. Tutti ricordiamo le favole della nonna e della mamma. Tutti, tra i nostri primi libri di lettura e d'apprendimento, abbiamo avuto libri di favole.
   Chi non ha letto, almeno parzialmente, la meravigliosa raccolta delle Mille e una notte? Un libro sapienziale, che apre molte porte su un mondo, una cultura, una civiltà antica e ricca. Un libro che ha potuto attrarre anche un poeta cineasta come Pier Paolo Pasolini. Un libro che può catturare sogni e farfalle. Ora vi narro come sono andate le cose.
   Il sonno sopraggiunse irresistibile. Tina poggiò il libro aperto accanto al lume, soffiò sulla fiamma e, nel buio, s'abbandonò sul cuscino. La falena abbagliata, che per tutta la sera non era riuscita ad allontanarsi dal lume, finalmente al buio, si posò sulla pagina aperta e vi trovò quiete.
   Tina aveva quindici anni e frequentava il ginnasio. Amava leggere molto e il suo libro preferito, riservato per la sera quando si metteva a letto, erano Les Mille et Une Nuits, tradotto in francese da Galland, dono di nonna Elsa, perché si esercitasse nel francese che studiava a scuola. Un libro pubblicato a Parigi nel 1846, illustrato con piccole scene incise che raffiguravano geni alati, orchi spaventosi, scaltri Visir e bellissime Sultane, sul quale la nonna aveva scritto il suo nome in bella calligrafia ottocentesca.  

   Scheherazade l'affascinava. Dalla sua bocca, come il Sultano, beveva estatica quelle fantastiche e interminabili favole. Salvo poi la notte a sognare qualche spaventoso mostro, o orco con la scimitarra alzata, che la minacciavano. Allora si svegliava impaurita, accendeva il lume e si guardava attorno, rassicurandosi di trovarsi nel suo letto, nella sua casa, al sicuro.   Quella sera il sonno era sopraggiunto mentre leggeva la pagina 128, con l'Histoire de la Princesse de Deryabar. Una favola che molto l'attraeva e avrebbe voluto leggere d'un fiato. Il sonno però l'aveva vinta e in sogno, per tutta la notte, aveva inseguito quella principessa e quel nome: Princesse de Deryabar.   Quando si risvegliò entrava già un raggio di sole attraverso la finestra. Seduta sul bordo del letto Tina vide posata sul libro la pallida falena che, per tutta la sera, aveva sfarfallato intorno al lume. Princesse de Deryabar, pensò d'un lampo. Non puoi sfuggirmi. E sollevato il libro piano piano, lo chiuse di scatto, catturando la falena fra le pagine della favola.   Così il libro, con la falena attaccata a pagina 128, conservò a lungo per Tina, e ancora per noi, un frammento di quella sera, di quel sogno. Guardate questa fotografia e lasciatevi avvolgere dal ricordo di un mondo passato e dalla voglia di giorni migliori.


giovedì 4 febbraio 2010

IL GRIFO E L’ANCORA




Prima aggiunta

    Appena otto anni prima, nel 1525, Erasmo da Rotterdam tesseva l'elogio delle officine Aldine, scrivendo da Basilea a Francesco d'Asola, erede di Aldo il Vecchio: «le vostre officine mi sono care quanto le buone lettere, che amo tantissimo e che alla vostra impresa devono tanto quanto a nessun'altra». Il genio d'Erasmo s'inchinava all'impresa dell'Ancora.
    Lo stesso Erasmo, che conosceva bene i protagonisti della cultura umanistica italiana, ne ricordava con rimpianto i grandi maestri, Ermolao Barbaro, Angelo Poliziano e il più giovane Filippo Beroaldo, le cui opere ammirava (…quorum scripta semper veneratus sum…).
    Ora quel Poliziano, venerato da Erasmo, si può leggere all'insegna del Grifo lionese. E il suo lettore sembra condividere le convinzioni erasmiane. Egli ha lasciato sul libro tracce, non numerose ma eloquenti, che ne rivelano l'ammirazione per il Poliziano: alcune postille alla prolusione di Poliziano a Svetonio, il suo ex libris, e, infine, una rilegatura in pergamena insolitamente "polizianesca".

 
(Continua)

domenica 17 gennaio 2010

IL GRIFO E L’ANCORA






Frammento di un discorso storico

    Il frammento che ci affascina non è questa volta di carta o di pergamena, ma le parole iniziali di un discorso rimasto interrotto. Il lettore del Cinquecento, nel momento di chiudere il libro, vede nell'ultima carta il marchio tipografico dello stampatore e annota:

«L'Anchora ha perso sua conditi<o>ne,… »

   Il libro che ha tra le mani è il terzo tomo delle opere di Angelo Poliziano, quello che contiene le Praelectiones, Orationes & Epigrammata, stampate a Lione da Sébastien Gryphe nel 1533. L'edizione è certamente ottima e il lettore umanista ne è contento. Egli sicuramente sa e ricorda che l'opera latina del Poliziano ha avuto la sua edizione principe nel 1498 ad opera di Aldo Manuzio (Venetiis in aedibus Aldi Romani, mense Julio MIID). Quella edizione fece epoca e a distanza di 35 anni non è stata dimenticata. Nessun editore italiano avrà la capacità o la forza di ripeterla. Bisognerà aspettare altri venti anni per veder comparire una nuova edizione di pari livello e ciò avverrà in Svizzera, a Basilea nel 1553 (Apud Nicolaum Episcopium Jr.).

   Nel frattempo il nostro lettore umanista può contentarsi dell'edizione di Lione, non senza rimpiangere l'edizione Aldina. L'editoria umanistica sta cambiando casa e il marchio di Aldo, l'ancora, sta cedendo il suo primato. L'Editore francese ne imita le caratteristiche più originali, quali quelle del piccolo formato e del carattere corsivo italico. Questa consapevolezza, che stimola tanta saggistica storica dei nostri tempi, viene intuita dal lettore contemporaneo ed espressa in una breve frase, lasciata aperta con una virgola. Egli aveva forse in mente di aggiungere altre osservazioni? Che cosa avrebbe detto? Il breve frammento, nell'icastica espressione di poche parole, basta a mostrare come in un lampo la crisi di un'epoca.

(Continua)

mercoledì 6 gennaio 2010

Un ‘dolce residuo’ del culto di San Nicola, Vescovo di Mira


   Nel post del 5 Dicembre scorso ho mostrato un frammento di codice medioevale che contiene l'incipit della vita di San Nicola, vescovo di Mira, il cui culto in Occidente, iniziato a Bari, si è diffuso in tutta l'Europa. Il Santo è ricordato nella liturgia cattolica del 6 Dicembre. Per commemorare l'episodio della sua vita in cui si racconta del dono di tre mele d'oro a tre fanciulle povere, in occasione della sua festa si facevano doni ai bambini. Con la festa di San Nicola siamo già nel periodo dell'Avvento e delle feste del Santo Natale. Nei Paesi Settentrionali, com'è ampiamente noto, la tradizione originale di questo culto è andata via via deformandosi e ha trasformato San Nicola nel vecchio barbuto e rubizzo di Babbo Natale, che arriva sulla slitta trainata dalle renne e con un sacco pieno di doni sulle spalle.

   Tuttavia l'immagine del Santo Vescovo non è sparita del tutto. Pur se la Riforma religiosa ha abolito nel culto e nelle chiese l'immagine dei santi, quella di San Nicola sopravvive curiosamente nello stampo di questi spekulatius, confezionati nella Germania Settentrionale. Gli spekulatius, deliziosi biscottini alla cannella, al cioccolato o al burro, sono decorati con stampi che riproducono figure di animali, di personaggi, di oggetti e fanno parte dei dolci caratteristici  che si regalano ai bambini nel periodo natalizio. In questo caso la figura impressa riproduce quella di un Vescovo, con mitria, pastorale e vesti pontificali, delineata in forma compendiaria ed essenziale, ma perfettamente riconoscibile. Chi altri può essere il Vescovo raffigurato se non San Nicola, Vescovo di Mira? L'immagine del Santo appare quale un tenace residuo iconografico dell'antico culto. Ma attraverso gli spekulatius che lo raffigurano, il Vescovo Nicola, pur se la leggenda della sua vita resta relegata nei libri antichi e dotti, continua a distribuire dolcezza e letizia a tutti.
 
 
 

lunedì 4 gennaio 2010

BRUNO «ECCELLENTISSIMO CHIRURGO».

Un emigrante d'eccezione: Bruno da Longobucco
dalla Calabria a Padova.

 Sono grato al Sindaco di Longobucco, Arch. Emanuele V. De Simone, per il cortese invito a scrivere una breve premessa per gli Atti della prima edizione del Premio Internazionale di Medicina "Bruno da Longobucco". Il contributo che posso dare è strettamente legato alle mie competenze paleografiche, bibliografiche e storiche, che hanno guidato e guidano i miei studi verso il recupero della tradizione scrittoria di lingua latina, sviluppatasi in Calabria accanto a quella di matrice ellenica sin dai tempi della dominazione Normanna (1060 d.C.). Nell'ambito di questa linea di studio ho ricercato, raccolto e studiato le testimonianze grafiche degli scrittori latini calabresi. Fra questi è certamente da annoverare Bruno da Longobucco, che, come nativo del mio stesso paese, è stato oggetto da parte mia di una particolare attenzione. Di lui ho raccolto nel corso degli anni una buona documentazione relativa ai codici manoscritti delle sue opere e alle edizioni a stampa, che spero di mettere a disposizione degli studiosi, affinché il lavoro fatto torni d'utilità generale.

Negli anni '50 e '60 del trascorso secolo, -quelli della mia età studentesca-, a Longobucco, paese natale di Bruno «eccellentissimo chirurgo», come lo definì Thomas Salmon nel Settecento, non molti ricordavano il suo nome. La cultura del tempo non lo consentiva. L'accesso allo studio era possibile solo a pochi e a prezzo di molti sacrifici individuali e delle famiglie. Lo studio obbligava a lunghi soggiorni nelle lontane città d'altre regioni dov'era possibile seguire i corsi universitari. In Calabria l'Università arriverà solo negli anni '70. Per tale motivo c'era un gruppo di studenti che compariva in piazza solo durante le vacanze estive. Non diversamente, almeno in questo, dagli altri longobucchesi costretti dall'iniquità dei tempi ad emigrare in cerca di lavoro all'estero o nell'Italia del nord. Ci fu allora chi per indicare quel gruppo di studenti coniò la definizione di "emigranti di lusso". Gli emigranti in terre lontane trovarono spesso condizioni di lavoro difficili e dure. Al loro confronto gli studenti che si recavano a Napoli, a Roma, a Firenze, a Bologna o a Milano poterono sembrare persone che andavano a divertirsi in città e il loro lavoro intellettuale facile e senza rischi.

A tutti oggi appare chiaro che non è così, anzi, vorrei aggiungere, che non è stato mai così. La fatica dello studio serio non è meno impegnativa d'altri lavori, non meno incerti ne sono i risultati e gli sbocchi professionali. La formazione intellettuale e la frequenza delle sedi universitarie richiede la mobilità, l'incontro, il contatto, l'esperienza e lo scambio delle conoscenze a livello nazionale e internazionale. Tutto questo presuppone lavoro, sforzo, tenacia, costanza, fatica la cui resa, se non immediata, c'è, ma si coglie a più lungo termine.

Bruno da Longobucco è stato anch'egli un emigrante che, per coltivare la sua vocazione allo studio, ha dovuto lasciare il paese. La sua fedeltà alla chiamata, gli sforzi richiesti per seguirla e, infine, i risultati ottenuti appaiono paradigmatici.

Del resto vorrei osservare che proprio il recupero della memoria di Bruno da Longobucco, finalmente liberato dalla "polvere dell'oblivione", per usare una locuzione di Tommaso Bartoli nostro primo storico cittadino, può essere letto come un'acquisizione di conoscenza e di consapevolezza raggiunta attraverso lo studio. La crescita culturale della società longobucchese, che oggi può contare su risorse d'alto livello intellettuale operanti sul luogo, ma anche fuori, consente di ricordare, illustrare e celebrare una personalità della cultura che travalica i confini municipali per imporsi all'interesse scientifico universale.

Bruno nasce a Longobucco nei primi anni del 1200, secondo un'ipotesi generalmente accolta e a suo tempo formulata da Francesco Russo in un saggio storico ancor oggi utile. Con lui anche i biografi successivi costatano desolatamente che abbiamo poche notizie sulla nascita, la vita e la morte di Bruno. Gli archivi storici di Longobucco, decimati dal tempo, ma anche quelli di Padova, città ben più ricca di depositi documentari, non hanno restituito sinora alcun documento.

Tutto quel che si conosce di lui, gli storici lo ricavano dalle sue opere. Tuttavia a noi, suoi concittadini, non ignari degli sviluppi storici e sociali della nostra popolazione, si offre la possibilità di riflettere su alcune situazioni locali che potrebbero avere influenzato la vicenda esistenziale di Bruno.

Soffermiamoci brevemente sullo stato politico e territoriale che fa da sfondo alla storia di Longobucco nei primi decenni del Duecento.

Sotto il profilo politico sono anni di grandi turbolenze e incertezze istituzionali. I territori del Regno meridionale sono percorsi dalle truppe dei baroni tedeschi che, dopo la prematura morte di Enrico VI nel 1197, tentano con diversi pretesti di approfittare della minore età di Federico, il legittimo erede. La casata Sveva, inoltre, era impegnata a dare sostegno alle truppe crociate, che dai porti del Regno meridionale partivano per la Terra Santa. La controversa impresa della quarta crociata si svolse proprio in quegli anni, tra il 1202 e il 1204. Innocenzo III, il gran papa regnante dal 1198, aveva preso sotto la sua protezione Federico II nella speranza di farne il condottiero cristiano che riconquistasse Gerusalemme e il Sepolcro di Cristo, caduti nelle mani del Saladino nel 1187. In questa situazione dominata dai sinistri bagliori della guerra, Enrico VI prima e, poi, Federico II, aveva necessità di metalli d'ogni genere, in particolare di ferro per fabbricare le armi, di argento per coniare le monete con cui pagare cavalieri e soldati e rimpinguare le casse del Regno. Nel caso, poi, di Federico, lo «stupor mundi», allora ancor giovane, possiamo anche mettere in conto la vocazione e la passione che aveva per gli oggetti preziosi e raffinati con cui temperare la vita militare e abbellire la vita di corte. Sotto il profilo economico e sociale in questi anni avviene anche una grande trasformazione dell'economia, con lo sviluppo e il predominio delle attività commerciali, cui si accompagna una fase d'intensa urbanizzazione e un conseguente afflusso di popolazione nei centri urbani, che si arricchiscono di risorse umane e produttive.

In questo quadro Longobucco, centro minerario noto dall'antichità per le vene di metallo argentifero, attraversa un momento assai favorevole, la cui conoscenza è affidata ad una documentazione purtroppo non abbondante, ma sufficiente.

Una notizia degna di nota proviene dalla raccolta agiografica che descrive i fatti miracolosi dell'abate Gioacchino da Fiore. Fra questi miracoli, raccolti fra XIII e XIV secolo, ce n'è uno che racconta un prodigio operato a Longobucco dall'abate Gioacchino. L'Abate vi si era recato per procurarsi argento per far confezionare dei calici da messa. Nell'ambito delle vicende biografiche di Gioacchino, tale soggiorno dovrebbe collocarsi cronologicamente tra il 1197 e il 1202. Longobucco appare in questo racconto come una piazza mercantile dove si compra e si vende l'argento.

Un'altra interessante notizia proviene da un diploma datato nel 1197, malauguratamente perduto in originale, nel quale Enrico VI di Svevia nomina un certo Petrus de Livonia prefetto delle miniere di Longobucco. Tale documento, però, nella copia tarda da cui è conosciuto e edito, presenta alcune incongruità che non rassicurano sulla sua autenticità. In ogni caso questa notizia, vera o no, esprime una realtà comprensibilmente oggettiva: l'interesse dei Regnanti del tempo a tenere il centro minerario sotto il loro diretto controllo.

La politica mineraria messa in atto da Federico II, figlio e successore di Enrico VI, manifesta più precisamente questo interesse. Una concessione, rilasciata in Messina nel Maggio 1210, assegna al monastero gioachimita di San Giovanni in Fiore il diritto di scavare liberamente e senza aggravi fiscali ogni miniera di ferro nell'ambito dei territori del monastero e, inoltre, di ricevere una percentuale di metallo da ogni miniera della Calabria. Tale documento rivela esplicitamente l'attenzione del Regnante per le attività minerarie, contribuendo ad avvalorare anche le circostanze della visita di Gioacchino da Fiore a Longobucco poc'anzi ricordate.

Il quadro economico e politico tracciato e queste particolari notizie persuadono che a Longobucco, sin dall'inizio del sec. XIII, si praticarono attività estrattive e minerarie. In questo quadro vorremmo collocare la nascita di Bruno, non solo quella anagrafica ma anche quella professionale.

La guerra e le attività minerarie sono per loro natura azioni tali da provocare ferite, traumi, malattie, e, talvolta, morte. L'argento e il piombo, in particolare, sono minerali che in determinate condizioni possono intossicare gli organismi viventi. Facilmente possiamo immaginare Bruno adolescente, nell'età in cui fioriscono le vocazioni professionali, osservare nelle fucine del paese i procedimenti estrattivi del metallo bianco e assistere probabilmente a eventi traumatici, quando gli operai restavano vittime d'incidenti sul lavoro. Il lavoro fonte di vita e di ricchezza poteva trasformarsi improvvisamente in causa di sofferenza e di morte. Lo stesso dicasi di qualche concittadino assoldato nelle milizie delle opposte fazioni politiche, che ritornava in paese con ferite da armi e mutilazioni ricevute in battaglia. Una miniatura dell'epoca, che illustra il Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli, nel codice conservato a Berna (Burgerbibliothek, 120), raffigura efficacemente le conseguenze sanguinose di questi scontri. In quei tristi tempi la presenza di un medico, meglio se chirurgo, tornava quanto mai utile e necessaria.

All'attenta osservazione di Bruno non sfuggiva nemmeno la frequenza locale di certe patologie, quale il gozzo. Se ne ricorderà, infatti, nella Chirurgia magna quando indicherà nella qualità dell'acqua una causa della malattia: «in Calabria, ad esempio, … è molto frequente per la viscosità e la grossezza dell'acqua».

Non è da ritenersi improbabile che tutte queste circostanze occasionali e ambientali abbiano alimentato nell'animo del giovane Bruno la vocazione e il proposito di dedicarsi all'arte medica.

Di natura più complessa appare il problema concreto della formazione e degli studi di Bruno. In mancanza di documenti espliciti, gli studiosi hanno espresso ipotesi varie e differenti, che per necessaria brevità non possono ora essere esaminate. Avrà egli compiuto i primi studi nella scuola episcopale di Rossano, o nell'analoga scuola diocesana di Cosenza? Avrà lasciato la Calabria precocemente alla ricerca di una sede scolastica più consona ai suoi obiettivi, quale la famosa Salerno?

Certo è che, quando a Padova nel 1252 egli scrive la Chirurgia magna, nel prologo dichiara di aver letto i testi dei medici antichi, nonché di Galeno, di Giovanni Damasceno, di Ioannizio, dei medici arabi: Avicenna, Almansore, Albucasi, Hali-ibn-Abbas. Ma, soprattutto, emerge con evidenza la precisa strategia di apprendimento adottata per seguire la sua vocazione. Bruno aveva capito che il chirurgo deve imparare dall'esperienza concreta. L'arte chirurgica, non diversamente da ogni altra arte, dopo l'acquisizione di una base teorica, s'apprende con gli occhi vedendo fare e si pratica con le mani. Perciò egli scrive: «È inoltre necessario che gli operatori di chirurgia, …, frequentino i luoghi nei quali si trovano spesso gli esperti di chirurgia, e osservino a lungo e con rigore le loro operazioni, non essendo né temerari né audaci, ma molto delicati e cauti nell'operare». Per recarsi nei luoghi dove vedere all'opera i chirurghi esperti, Bruno aveva dovuto lasciare il paese natale. Il giovane studente, forse anch'egli indicato dai suoi contemporanei come un "emigrante di lusso", aveva sacrificato affetti e amicizie alla sua vocazione.

L'ansia di conoscenza lo portò nelle sedi dove imparare e perfezionarsi. Dalla Calabria, come pare, raggiunse Salerno, Bologna e, infine, Padova, dove si fermerà e dove, ormai famoso, gli fu chiesto di scrivere la sua dottrina. A Padova, infatti, nacque la Chirurgia magna e, poi, la Parva, i cui codici scritti in latino saranno subito copiati e tradotti in ebraico, in tedesco, in francese e, ancora, volgarizzati in lingua italiana, diffondendosi così nell'Europa intera.

Nel libro, pur benemerito, del Tabanelli, è stato impropriamente scritto che i codici di Bruno «non sono numerosi» e «ciò confermerebbe la scarsa diffusione che ha avuto l'opera di questo Autore». Oggi, con più mature conoscenze e con più pazienti ricerche, posso sicuramente smentire tali affermazioni, con l'impegno di poterlo presto dimostrare in una pubblicazione.

Bruno e le sue due opere, sin dal secolo in cui visse e morì, sono ben presenti nella cultura e nelle biblioteche degli studiosi. I codici della Chirurgia magna e della Parva si contano a decine e cominciarono a circolare mentre egli era ancora vivente. Per fare un esempio, il codice Ottob. lat. 2082, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, fu copiato nel 1285, anno in cui Bruno è ancora vivo e che precede quello della morte, secondo la cronologia della vita proposta da Francesco Russo. La fortuna di Bruno durò a lungo e fu assecondata dall'invenzione della stampa: la sua opera ha avuto due edizioni nel 1498 e nel 1499, e altre ottime edizioni nel secolo successivo.

La ripresa degli studi che si è verificata nel secolo appena trascorso, se ci ha dato i contributi di Francesco Russo, Enrico Pispisa, Mario Tabanelli, non ha potuto colmare la mancanza di un'edizione critica moderna delle opere di Bruno. Per leggerle nella lingua in cui egli le ha scritte, il latino, dobbiamo ricorrere alle antiche edizioni stampate tra il 1498 e il 1546. A tutti è noto come la conoscenza scientifica del pensiero e della dottrina di uno scrittore non può che essere fondata su un testo criticamente corretto delle opere. Anche il libro coraggioso pubblicato recentemente dal Prof. Focà, allo scopo di divulgare in lingua italiana la dottrina chirurgica di Bruno, è dovuto ricorrere all'edizione dei Giunta del 1546.

Il rinnovato interesse per la figura di Bruno da Longobucco nel mondo della ricerca universitaria, sull'onda di un più generale indirizzo verso la storia della scienza, cui il mondo d'oggi affida grandi speranze di rinnovamento e di progresso, sicuramente gioverà ad una più approfondita conoscenza della sua figura e della sua opera.

Hoc est in votis.
Per noi suoi concittadini, intanto, è già avvenuto un evento fondamentale: il ritorno e la reintegrazione di Bruno nel patrimonio culturale di Longobucco e della comunità cittadina. Il paese che gli ha dato i natali e lo ha visto emigrare come un oscuro giovane, lo può celebrare oggi come la figura luminosa ed esemplare di un uomo che, con il lavoro e con lo studio, ha donato agli altri la sua esistenza.

[Pubblicato in: Atti Premio Internazionale di medicina Bruno da Longobucco. Storia e tradizioni scientifiche in Calabria. Longobucco, 24 agosto 2005, Cosenza, Plane, 2005 (Comune di Longobucco), pp.7-18].




 (N) Oslo, Archivverket Riksarkivet, Riksarkivets Fragmentsamling.
Frammento di un codice della Chirurgia Magna di Bruno da Longobucco, ritrovato nell'Archivio della città ove oggi si conserva.



L'opera annunciata, che elabora un'elencazione tendenzialmente esaustiva dei codici di Bruno da Longobucco, ha visto la luce nel volume:

ANTONIO MARIA ADORISIO
 I codici di Bruno da Longobucco. In appendice il titulus finalis inedito della Chirurgia Magna
Edizioni Casamari, 2006 (Con il patrocinio dell'Amministrazione Comunale di Longobucco)
cfr. Bollettino delle Nuove Accessioni, 2009, Aprile



    «L'amministrazione comunale di Longobucco non poteva fare francamente a meno di patrocinare la presente pubblicazione del dott. Adorisio, uno dei nostri "emigranti d'eccezione" che con il loro studio, lavoro e impegno onorano quotidianamente questa terra ... Un longobucchese che studia un longobucchese, un ideale legame fra passato e presente della nostra comunità; un ideale legame con il nostro "glorioso" passato che deve spingerci anche ad un maggior impegno per il futuro. Queste pagine colmano una "insopportabile" lacuna. Non è vero, infatti, che gli scritti di Bruno abbiano avuto una scarsa diffusione. Adorisio ben argomenta l'importanza del pensiero e dell'opera dell'«eccellentissimo chirurgo», documentando l'ampio numero di manoscritti, negli originali latini e nelle traduzioni in ebraico, tedesco, francese, italiano. Di ogni codice sono annotate le caratteristiche tecniche, testuali e bibliografiche» (dalla Presentazione di Emanuele V. De Simone).